> FocusUnimore > numero 10 – dicembre 2020
Parlare di comunicazione nel 2020, anno nel quale la possibilità di contatti interpersonali si è ridotta al minimo, ci riporta inevitabilmente al tema della iper-connettività. Essa ci ha permesso di lavorare, studiare, incontrarci attraverso modalità che da “surrogato” ora ambiscono a divenire o si sono già affermate come “nuove pratiche”.
“Iper-connettività” non si riferisce solamente alla diffusione o al mero utilizzo o ricorso a strumenti di connessione digitale; è questo l’equivoco che ha aleggiato per lungo tempo. Non si tratta di comunicare con il digitale, ma nel digitale. La svolta è paradigmatica: per molti si è ritenuto che affacciarsi al digitale fosse una scelta. Alcuni ne sono stati lontani con timore o diffidenza; altri si sono affacciati con curiosità o titubanza; altri ancora vi si sono immersi con entusiasmo e determinazione.
La ricerca scientifica e la divulgazione hanno alimentato questo equivoco: in ogni disciplina sono proliferati termini che contrapponevano il digitale al convenzionale e, in molti manuali, il digitale non si è innestato nella conoscenza pregressa bensì è stato spesso trattato come una tendenza passeggera.
Invece, come spesso accade di fronte a ciò che è nuovo e dirompente, il primo passo da compiere è tornare ai fondamentali, per poi procedere in modo incrementale con nuovi principi. Già la pragmatica della comunicazione, teoria degli anni Settanta del Novecento, dedicava spazio al tema della presenza comunicativa, definendo la comunicazione non più come un’azione deliberata bensì come un comportamento. Anche il silenzio e l’assenza sono dunque un comportamento con valenza comunicativa. Già negli anni Settanta perciò, a ben guardare, troviamo la soluzione al quesito di oggi: si può rimanere in silenzio, fuori dalla comunicazione nello spazio digitale?
Si può decidere di non agire nello spazio digitale, invocandone l’immunità, ma ciò non significa potersi esimere dall’adottare un certo comportamento nel contesto di iper-connettività nel quale siamo comunque immersi, ovvero in quel proliferare di connessioni e relazioni tra persone, strumenti ed altre entità caratterizzato da un’accessibilità estrema e continuativa al di là dello spazio e del tempo. Si può quindi adottare una certa permeabilità agli strumenti digitali, rimanendone fuori o esponendosi in modo selettivo (ad esempio escludendo i social network), ma questo silenzio avrà comunque una valenza di comportamento comunicativo che lascerà spazio a varie interpretazioni: inesperienza, diffidenza, paura? Qualsiasi sia la scelta di un individuo o organizzazione, il riflesso della iper-connettività lo coinvolgerà, in quanto si riverbera sugli altri strumenti. Si fa riferimento in particolare a due dimensioni dell’accessibilità di cui si è detto sopra: la circolarità della comunicazione e l’estensione.
Con “circolarità della comunicazione” si intende la perdita della distinzione fra emittente e ricevente, in cui la guida del processo comunicativo è diffusa, è condivisa fra i partecipanti. Ciò pone interessanti questioni di ricerca e sfidanti temi di gestione, tra i quali: la legittimità delle fonti e le fake news, il sovraccarico informativo che insiste sulla ridotta capacità cognitiva umana, la partecipazione degli stakeholders, il senso comune condiviso come incessante negoziazione di significati, la generazione di idee che prendono la forma di un brand collettivo (es. #MeToo, #FridaysForFuture), la rivisitazione del concetto di asimmetria informativa e di fiducia nelle relazioni, la proprietà del dato e delle idee.
Altro elemento dirompente della comunicazione nel mondo odierno, alla luce delle potenzialità del digitale, è l’“estensione della comunicazione nel tempo e nello spazio”. Da qui altri interessanti percorsi di analisi e minacce/opportunità operative dettate dall’indeterminatezza dei confini: la conservazione e la diffusione del patrimonio culturale, le comunità globali, l’ubiquità degli stili di vita, la ri-definizione dei confini delle organizzazioni, la comunicazione come processo inclusivo e la contemporanea radicalizzazione dell’etnocentrismo, la coerenza delle informazioni in rete.
Come ricercatori e ricercatrici possiamo avere un’osservazione privilegiata della comunicazione, unendo prospettive che si dimostrano quanto mai compatibili e complementari: la lingua, la psicologia, la sociologia, l’economia, il diritto, la statistica, l’informatica.
Lo strumento, dunque, non è che l’aspetto più evidente, ma non è questo che determina la differenza. Esimersi dall’utilizzarlo, o utilizzarlo con selettività non preserva dai rischi, al contempo ricorrervi in modo unilaterale e normativo non garantisce di goderne delle potenzialità.
È il “comportamento comunicativo” che fa la differenza; qualsiasi strumento si adotti, il discrimine è se lo si usi tenendo conto di un mondo in cui ormai accessibilità, circolarità ed estensione della comunicazione sono imprescindibili.