> FocusUnimore > numero 3, aprile 2020
In un’epoca caratterizzata da notizie virali, da fake news, da dirette facebook, occorre sempre più fornire alle giovani generazioni, che sono visually oriented, gli strumenti critici per decrittare questo tipo di messaggi, capire i meccanismi di produzione delle notizie, siano esse quelle del telegiornale, delle riviste o di twitter. Se ne sente sempre più l’urgenza, soprattutto in tempi come questi, dove la selezione e la gerarchia delle fonti diventa imprescindibile per una corretta conoscenza ed informazione.
I nuovi media, d’altra parte, offrono opportunità inedite di raccolta, conservazione e diffusione di informazioni e per la costruzione di narrazioni.
Tutto ciò riguarda anche il tema della memoria storica, della sua produzione e del suo “uso pubblico”.
Unimore affronta il complesso argomento della memoria attraverso numerose attività didattiche che vanno da corsi di studio innovativi quali quello in Visual History del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, tenuto dal Prof. Federico Ruozzi al Master in Public History, il primo master italiano del genere, oggi alla V edizione, ideato dal prof. Lorenzo Bertucelli, Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali e ora diretto dal prof. Alfonso Botti.
Un sondaggio di alcuni atenei italiani, condotto anni fa, mostrava che i ragazzi possiedono una scarsa conoscenza degli eventi che hanno caratterizzato il secolo appena concluso. I confini di quelli che erano considerati veri e propri riferimenti per capire e interpretare il presente (la Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza, l’antifascismo) hanno perso importanza soprattutto per certe fasce della società: il 70% degli intervistati sbagliava nell’identificare la ricorrenza che si celebra il 2 giugno; il 25% riteneva che Aldo Moro fosse un magistrato nei processi contro le Brigate Rosse.
La responsabilità non è certo degli studenti. La storia è uscita da tempo dai luoghi dove tradizionalmente veniva fatta. Si parla a questo proposito di uso pubblico della storia, espressione coniata da Jürgen Habermas nel 1986 quando in Germania si impose un acceso dibattito tra storici sul nazismo (l’historikerstreit) che, qui la novità, si celebrava per la prima volta sulle pagine dei quotidiani e non da quelle delle riviste scientifiche. Da allora, si è capito che se per secoli sono stati gli storici a raccontare il passato delle società, a formare una coscienza collettiva sugli eventi, ora non è più così: sono altri soggetti a giocare il ruolo di titolari. E i media audiovisivi, per il loro linguaggio, la loro efficacia, la loro immediatezza, sono tra quelli che più si configurano come nuovi veicoli di contenuti storici e di memoria del nostro passato.
Che non sia la storia ad essere in crisi lo si può ben percepire dall’offerta di fiction televisive o pellicole cinematografiche a carattere storico che hanno invaso i palinsesti delle reti generaliste o tematiche e le sale cinematografiche. Sono ormai queste modalità espressive a imporre un’agenda su che cosa ricordare, ma, soprattutto, su come ricordare.
In un Paese che ha la tendenza a dimenticare la propria storia, i vuoti vengono colmati dai media audiovisivi. Così gli spettatori si fanno un’idea più precisa del caso Moro attraverso il film di Bellocchio o la fiction con Michele Placido, della strage di Sant’Anna di Stazzema con il film di Spike Lee, sulla vita di papa Giovanni XXIII o su Padre Pio con la doppia fiction Rai e Mediaset, sulla Prima repubblica con La meglio gioventù, su Peppino Impastato con i Cento Passi, sulle foibe con Il cuore nel pozzo. Esempi più recenti sono la pellicola candidata all’Oscar 1917 di Sam Mendes o la serie televisiva 1992 trasmessa su Sky Atlantic, che hanno portato in scena rispettivamente la prima guerra mondiale e Tangentopoli, o l’ultimo film su Craxi, Hammamet, interpretato da Favino.
La capacità dei media di partecipare alla costruzione di una memoria collettiva, e soprattutto di un immaginario collettivo, è enorme. Basti pensare a quanto il cinema abbia inciso nel far conoscere la vita di San Francesco, veicolata da diversi film, a seconda delle generazioni (Rossellini, Cavani, Zeffirelli, etc.), senza che nessuno abbia realmente letto una sua biografia, come quelle dello Jørgensen, di Vauchez, o abbia modellato l’idea di un Gesù biondo, alto e affascinante, incastrato nel zeffirelliano volto di Robert Powell.
La potenza di questo “cinema della memoria” o di questa “televisione della memoria” è quindi fuori discussione: questi media sono vere e proprie macchine mitopoietiche. Quando però si combinano i vari ingredienti sul tavolo (vuoti di memoria, polarizzazione della memoria, riscrittura della memoria nazionale), il risultato può essere esplosivo; la memoria degli eventi sganciata dalla conoscenza storica porta ad equiparare cose che uguali non sono. In molti film e in molte fiction
si assiste ad un vero e proprio scollamento tra quanto messo in scena e quanto prodotto dalla ricerca storiografica, dando vita a vere e proprie riscritture della storia e trasformando così quell’uso pubblico in un suo uso politico. La Resistenza viene svalutata e messa sullo stesso piano della Repubblica sociale, il fascismo diventa la variante buona del nazismo, Mussolini in fondo era un «brav’uomo», la responsabilità della deportazione è stata solo tedesca, etc. come alcune fiction recenti non hanno mancato di proporre.
Risulta quindi necessario, da parte dell’Università, fornire alle studentesse e agli studenti saperi utili ad accogliere e leggere criticamente questi testi audiovisivi (ma non solo), in un tempo in cui la storia viene sempre più relegata ai margini, in forza di un presentismo che nulla fa capire, e la ricerca storica viene sempre più svalutata perché non produce beni tangibili, dimenticando che questo tipo di analfabetismo effetti concreti li ha: vedi la voce “costi sociali”.
La relazione tra memoria e nuovi media non è solo l’oggetto di numerose attività didattiche di Unimore, ma è anche al centro di progetti di ricerca come ad esempio il progetto “Reggiane Urban Gallery” che sottolinea il tema della memoria del passato e del presente mediante l’ambiente digitale.
Il progetto, realizzato da STU-Reggiane Spa e coordinato da Elisabetta Simonini e Paolo Tegoni, si è avvalso della collaborazione del Dipartimento di Comunicazione ed Economia, attraverso la supervisione scientifica del Dott. Damiano Razzoli e del Prof. Nicola Dusi e ha coinvolto studenti e studentesse del corso di Laboratorio di Grafica e Videocomunicazione.
Reggiane Urban Gallery (http://reggianeurbangallery.it/) è una galleria virtuale, realizzata con fotografie sferiche, che permette a ogni visitatore digitale di scoprire le opere, gli artisti e le storie di street-art e writing nascoste nel complesso industriale delle ex-Officine Reggiane, proponendone un’esperienza di attraversamento e narrazione interattiva.
Le ex-Officine Reggiane sono un teatro dove si è svolta la storia economica e sociale non solo di Reggio Emilia, ma dell’intero paese. La memoria di quel passato industriale è custodita negli archivi storici, tra cui l’archivio storico delle Reggiane (vedi box. 2), ma è anche ancorata nelle pareti dei capannoni industriali che ci sono giunti fino ad oggi, oggetto di un innovativo intervento pubblico di rigenerazione urbana, che mira a riconvertire le strutture delle ex-Officine Reggiane nel Parco dell’innovazione
.Nel periodo di abbandono tuttavia un gruppo di street-artist ha eletto gli spazi delle ex-Reggiane a “officina creativa” a tal punto da divenire un riferimento per l’arte urbana nazionale e internazionale e ha mantenuto in vita la memoria delle ex-Officine Reggiane con sessioni di jam-session dedicate alle lotte dei lavoratori, tra le quali quella durante la quale è stato autoprodotto il trattore R60, nella primavera del 1951.
Questo patrimonio di arte urbana però non è accessibile al pubblico a causa dello spazio inagibile.
Proprio la riconversione dell’area e la ristrutturazione dei capannoni rischierebbe di cancellare per sempre non solo la testimonianza architettonica del passato industriale di quel luogo, ma anche le tracce d’arte che lì si sono sedimentate e che rappresentano indubbiamente un nuovo patrimonio culturale per il territorio: la stratificazione visiva su spazi materiali e il processo di trasformazione del luogo è quello che l’ambiente digitale Reggiane Urban Gallery ha cercato di preservare dall’oblio.
Il progetto ha mappato e riprodotto in un percorso di visita virtuale a 360° le opere dei capannoni 17-18, soggetti a demolizione nel contesto della riqualificazione in corso delle ex-Officine Reggiane, e ha avviato anche la raccolta fotografica delle opere realizzate negli altri capannoni.
L’Archivio Storico delle Reggiane (https://www.archivioreggiane.it/) è uno dei più importanti fondi documentali dell’industria italiana. L’Università di Modena e Reggio Emilia è coinvolta fin dal primo momento nel progetto della sua salvaguardia e valorizzazione eil Prof. Luigi Grasselli, del Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria, ne è il rappresentante nel comitato scientifico.
Il materiale è costituito da documenti, fotografie, disegni tecnici, oggetti e materiali, che rappresentano un patrimonio straordinario per studi e ricerche sulla memoria industriale del ‘900, non solo per la città di Reggio Emilia ma per il Paese, perché le Reggiane sono state una delle principali realtà industriali nazionali.
L’archivio, attualmente collocato presso Istoreco di Reggio Emilia, è consultabile al pubblico e costituisce una fonte preziosa di materiali per progetti di studio e ricerca o tesi di laurea.