> FocusUnimore > numero 13 – marzo 2021
Da ingegnera a sindaca, da ministra a direttrice, la presenza oggigiorno di tante donne in ruoli istituzionali di prestigio o professioni di rilievo non riceve ancora un adeguato trattamento da parte della lingua italiana. Una realtà che riflette la fatica con cui le donne si sono affermate nella società e una tradizione patriarcale dura a morire.
È questo lo scenario presentato dalla Prof.ssa Cecilia Robustelli, linguista dell’Università di Modena e Reggio Emilia, coordinatrice del gruppo di lavoro che ha prodotto le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR” e fondatrice del Laboratorio Genere, Linguaggio, Comunicazione_Digitale – GLIC_D, con sede virtuale presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali di Unimore.
Un laboratorio che intende esaminare l’uso del linguaggio di genere nel contesto della comunicazione pubblica digitale, in particolare della Pubblica Amministrazione Digitale e dell’Agenda Digitale Europea, come strumento necessario a “garantire piena ed effettiva partecipazione femminile e pari opportunità di leadership ad ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica” (obiettivo 5.5 dell’Agenda Onu 2030). Le ricerche vertono sulle lingue italiana, francese, inglese, spagnola, tedesca per le quali il DSLC dispone di una serie di specialisti/e.
Il GLiC_D si propone inoltre di avviare nuove collaborazioni, in prospettiva interdisciplinare, con studiose e studiosii di altri Dipartimenti e atenei aderenti al gruppo di lavoro “Lingua e Genere”, costituito presso la CRUI, di cui la Prof.ssa Robustelli è coordinatrice, ma anche di enti, istituzioni e imprese del territorio e con il Tavolo regionale permanente per le politiche di genere, organo consultivo della Regione Emilia-Romagna.
“Quando parliamo usiamo normalmente il genere femminile per ciò che si riferisce alle donne e quello maschile per gli uomini: questo uso riflette esattamente la regola grammaticale che abbiamo imparato alle elementari – commenta la Prof.ssa Robustelli -. Se leggiamo che “il dirigente Bianchi” ha firmato una circolare o che “il prefetto Rossi” parteciperà alla cerimonia, l’immagine mentale che si forma nella nostra mente è quella di un uomo. Se invece leggiamo “la dirigente Bianchi” e “la prefetta Rossi” l’immagine sarà quella di una donna. Oggi le donne svolgono professioni e detengono ruoli un tempo solo maschili, per questo la tradizione ci ha abituato a definirle con termini maschili: ma oggi dobbiamo acquistare familiarità con quelle femminili, le uniche che possono designare le donne. Del resto in italiano entrano ogni anno tante parole nuove, e nessuno protesta. Dovremmo chiederci perché in Rete scoppiano tante polemiche sull’uso, ad esempio, di termini quali ingegnera o avvocata, mentre chattare, coppapasta o giocattoleria sono tranquillamente accettate”.
“Diciamo – continua la linguista di Unimore – che la lingua ci offre, come sempre, tutte le possibilità per comunicare la presenza delle donne come soggetti attivi della società, ma vengono accolte lentamente. Anzi, con esitazione e a volte con rifiuto. Certo, qualcosa si può spiegare pensando che la tradizione linguistica è lunga a morire, ma le ragioni sono largamente extra linguistiche, riconducibili alla fortissima tradizione patriarcale che impregna la cultura del nostro Paese. E così nell’uso della lingua il genere grammaticale maschile si allunga fino a includere la rappresentazione della donna: ancora oggi si usa “uomo” per indicare uomini e donne. Il genere femminile invece rimane relegato ai mestieri e alle professioni più lontane dai centri di potere e più rispondenti ai ruoli tradizionali. Manca la consapevolezza di quanto il linguaggio discrimina le donne”.
La proposta, avanzata ormai da diversi anni, di “cambiare la lingua” per definire i nuovi ruoli delle donne anziché continuare a usare la forma maschile corrispondente assicurata dalla tradizione, provoca ancora oggi forti esitazioni, a livello di comunicazione istituzionale, aziendale o individuale. Una questione di grande attualità che viene periodicamente ripresa dalla stampa, oltre a essere oggetto di interesse da parte delle stesse istituzioni, come prova la creazione del Gruppo Esperti del Linguaggio, costituito presso la Commissione Pari Opportunità dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cui ha fatto parte anche la Professoressa Robustelli.
Le modalità con cui il linguaggio può avere un effetto di discriminazione nei confronti delle donne sono molte e sono già state descritte da Alma Sabatini, la prima studiosa italiana a occuparsi di sessismo linguistico quasi trent’anni fa.
Nel 2014 la funzione discriminante del linguaggio è stata riconosciuta in modo esplicito anche sul piano istituzionale. Per la prima volta un articolo di legge sprona ad operare “per riconoscere, garantire e adottare un linguaggio non discriminante”: si tratta dell’art. 9, titolo III, della Legge regionale dell’Emilia-Romagna del 27 giugno 2014, n. 6, Legge quadro per la parità e contro le discriminazioni di genere.
Un tipo di discriminazione frequente avviene attraverso l’uso di stereotipi, in genere negativi, riferiti alle donne: per esempio recentemente il presidente del Comitato Olimpico Tokyo 2020 Yoshiro Mori ha detto pubblicamente che alle riunioni dove ci sono troppe donne tra i partecipanti si perde più tempo del necessario. Ma è discriminante anche il riferimento, in contesti professionali, alle qualità fisiche o alla vita privata della donna: perché soffermarsi sul colore dell’abito delle ministre in sede di giuramento al Quirinale?
Un secondo tipo di discriminazione linguistica avviene attraverso l’uso della grammatica che, come si è detto, viene usata come se ci si rivolgesse a un uomo. Si tratta di usi obsoleti, che rendono le donne invisibili e le discriminano “a rovescio” rispetto al modo con cui normalmente si attua la discriminazione linguistica: non con l’introduzione di nuovi termini, ma, semplicemente, trattando la donna come se fosse un uomo, e facendola così scomparire dalla comunicazione.
I media stessi contribuiscono in misura consistente al mantenimento e addirittura al rafforzamento di un immaginario di genere che trasmette un modello non più attuale e quindi inadeguato della donna. Il linguaggio quotidiano si sente così autorizzato a conservare e ad adottare queste modalità espressive, contribuendo a depositare nella mente di chi è esposto a questo tipo di comunicazioni parole e concetti che possono essere facilmente scambiati come riflessi della realtà. Tutto ciò non fa che rinforzare la necessità che il ruolo della donna nella società venga pienamente riconosciuto e testimoniato anche attraverso il linguaggio con un uso della lingua più adeguato e consapevole. Ma ancora ci sono resistenze. Ed è necessario che siano proprio le donne, in prima persona, a chiedere di essere chiamate con il titolo femminile: la stessa Laura Boldrini dovette chiedere di essere chiamata “la” presidente della Camera, e oggi dobbiamo alla stessa Antonella Polimeni il suo essere definita sui giornali “rettrice” e non “rettore” dell’Università La Sapienza.
La comunicazione istituzionale deve rendere visibile la donna attraverso il linguaggio: il Codice di Stile delle comunicazioni scritte a uso delle Pubbliche Amministrazioni, un manuale promosso dal giurista Sabino Cassese nel 1993, già richiedeva “Quando ci si riferisce ad un incarico amministrativo, e questo è ricoperto da una donna, volgere al femminile ogni riferimento che la riguarda e utilizzare (…) la forma femminile dell’incarico ricoperto o della mansione svolta”. La legge 6/2014 della Regione Emilia-Romagna ha ripetuto la raccomandazione. Lo stesso hanno fatto le linee guida del Miur, e sta ripetendo il Gruppo sul Linguaggio di genere della CRUI coordinato dalla stessa professoressa Robustelli. È tempo che le istituzioni si adeguino….