> FocusUnimore > numero 14 – aprile 2021
Ogni cambiamento tecnologico che si è verificato nella storia ha sempre provocato sentimenti contrastanti e anche forti diffidenze.
Anche l’attuale quarta rivoluzione industriale, quella che fa leva su tecnologie digitali e robotiche, genera inquietudini in vasti strati della popolazione lavorativa.
A ben vedere però, non è la tecnologia in sé la fonte delle inquietudini passate e attuali, ma il modo in cui si sceglie di integrarla e utilizzarla all’interno dei processi di lavoro. Il problema cruciale è quindi capire come avviene l’integrazione delle nuove tecnologie nei processi di lavoro e, soprattutto, chi sceglie come utilizzarle e quali obiettivi perseguire attraverso il loro utilizzo.
È a partire da qui che si comprendono le ragioni delle resistenze e delle inquietudini che suscitano le nuove tecnologie, soprattutto se si considera che una larga parte dei lavoratori e delle lavoratrici che si pongono queste domande sono nella condizione di potere influire ben poco sulle decisioni che riguardano il modo di utilizzare le tecnologie e, più in generale, le modalità di svolgimento del proprio lavoro.
La vera posta in gioco è, quindi, il grado di autonomia, non intesa come fattispecie di rapporto di lavoro su un piano contrattuale, bensì come la capacità di affermare regole proprie nello svolgimento del processo lavorativo (dunque anche nel modo di utilizzare le tecnologie disponibili); più nello specifico, in discussione è la possibilità di salvaguardare gli spazi di autonomia conquistati in passato e la capacità di riaffermarli in futuro, anche nel processo di integrazione e di utilizzo delle nuove tecnologie; e non è cosa di poco conto, se si considera che sono proprio questi spazi di autonomia ad essere un fondamentale, anche se non l’unico, fattore di valorizzazione sociale del lavoro, di qualsiasi lavoro.
In realtà, si potrebbe notare, l’autonomia di chi svolge un lavoro è inestinguibile, in qualche misura sempre presente, ingrediente essenziale di qualsiasi processo organizzativo, anche di quello più industrializzato, ma ciò non toglie che le condizioni di esercizio dell’autonomia possano essere molto diverse tra un lavoro e l’altro; ed è del tutto legittimo essere convinti che in un processo industriale (aggettivo che oggi più che mai non è riferibile alla sola produzione manifatturiera) l’affermazione di autonomia, anche del singolo, non possa che essere affermata attraverso una dimensione collettiva.
D’altra parte, creare le condizioni di un’effettiva autonomia nel lavoro e più in generale nella società è questione che riguarda tutti e tutte.
Tema complesso e articolato, quello dell’autonomia e del suo rapporto con il lavoro industriale e la tecnologia, da sempre al centro della riflessione filosofica e socioeconomica, e che proprio a partire dal secondo dopoguerra ha assunto una posizione centrale per la nascente sociologia del lavoro europea. “Dove va il lavoro umano?”, è la domanda che si poneva George Friedmann settant’anni fa e che ha dato il titolo ad una delle sue opere più note pubblicata a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Qui e in un altro suo precedente lavoro, “Problemi umani del macchinismo industriale”, Friedmann si interroga proprio sul ruolo e sul destino dell’autonomia del lavoro operaio in un’organizzazione taylorista che impiega sempre di più tecnologie meccaniche automatiche.
Nonostante i profondi cambiamenti che si sono verificati da allora nel mondo del lavoro e nonostante le fortune alterne della sociologia del lavoro in ambito accademico, il tema dell’autonomia non ha perso la sua centralità e anzi torna ricorsivamente ad imporsi all’attenzione di studiosi e ricercatori provenienti da diversi ambiti disciplinari.
Nell’attuale nuova stagione di studi in tema di “Industria 4.0”, sul lavoro industriale e sulle sue trasformazioni, grande attenzione è rivolta alle condizioni di lavoro, alle competenze dei lavoratori e alla qualità del lavoro in “ambienti tecnologicamente densi” ed inevitabilmente l’autonomia del lavoro è destinata a tornare ad essere oggetto di riflessione.
Dopo anni di retoriche sulle fabbriche a luci spente e sulla residualità della componente umana nei processi di produzione industriale si sono riaccesi i riflettori sul lavoro delle donne e degli uomini nei luoghi di produzione e se ne riconosce, direttamente e/o indirettamente, la centralità.
Nel nostro Ateneo, un esempio in questo senso è lo studio “Maturità digitale e nuove professioni nelle imprese dell’Emilia-Romagna”, coordinata dal Dipartimento di Economia Marco Biagi di Unimore, insieme alla Regione Emilia-Romagna e a Unioncamere regionale, a cui si è dedicato un articolo nel numero 11 (gennaio 2021) di FocusUnimore.
Il rinnovato interesse per il lavoro e le trasformazioni che lo attraversano, comprese quelle tecnologiche, non riguarda però la sola attività di produzione, ma anche le attività impiegatizie (si pensi ai numerosi ricercatori e ricercatrici del nostro ateneo impegnati, attraverso diverse prospettive disciplinari, a studiare lo “smart working” ben prima dell’emergenza pandemica), il lavoro nel settore della creatività e quello dei freelance di prima e soprattutto di seconda generazione (si pensi alle ricerche sugli spazi collaborativi di cui si è trattato nel numero 1/2021 di febbraio 2020) e le attività che rientrano nel settore dei servizi.
A proposito di quest’ultimo, il Dipartimento di Comunicazione ed Economia, in convenzione con l’Università di Bari e la Scuola di Studi Superiori Sant’Anna di Pisa e in collaborazione con il Joint Research Centre della Commissione Europea sta portando avanti un progetto di ricerca che ha per oggetto proprio il lavoro nei servizi e le trasformazioni tecnologiche. Il progetto, chiamato “Cases studies of automation in services” e di cui il prof. Matteo Rinaldini (Dip. di Comunicazione e Economia) è project manager, è iniziato a gennaio 2021 e durerà circa un anno. Il disegno di ricerca prevede lo studio delle attività lavorative della logistica, del pulimento e della cura sanitaria per capire quali cambiamenti dell’organizzazione del lavoro si siano verificati e come si siano trasformate le condizioni di lavoro a fronte dell’introduzione di tre nuove specifiche tecnologie di automazione: a) Autonomous Guided Vehicles; b) robot professionali autonomi per la pulizia di ambienti (stabilimenti industriali e commerciali, aeroporti, ospedali, ecc …); c) dispositivi di monitoraggio diagnostico in remoto.
Queste sono solo alcune delle esperienze di studio, peraltro molto diverse tra loro, portate avanti in questi anni dai ricercatori e dalle ricercatrici dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia e la lista potrebbe continuare (per gli studi in ambito del diritto del lavoro si rimanda ad altri contributi contenuti in questo fascicolo).
Anzi, è auspicabile che la lista sia destinata ad allungarsi nel prossimo futuro, non solo in ragione dell’importante tradizione che l’Ateneo di Modena e Reggio Emilia ha in questo campo di studi (qui hanno insegnato, tra gli altri, Vittorio Foa, Vittorio Rieser, Giovanni Mottura), ma anche e soprattutto perché la domanda di George Friedmann “dove va il lavoro umano?” continua ancora oggi a non avere una risposta certa.
Il lavoro migrante al centro delle ricerche dell’Osservatorio migranti del CRID
Il lavoro è uno degli assi di ricerca dell’istituendo Osservatorio Migranti promosso a partire da giugno 2019 dal CRID – Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità (www.crid.unimore.it) in collaborazione con l’Associazione Porta Aperta, l’ARCI di Modena, la Coop. L’Angolo, il CEIS e con la supervisione della Caritas diocesana e il sostegno della Fondazione di Modena.
Il progetto, diretto sul piano scientifico dal Prof. Gianfrancesco Zanetti e coordinato dal Dr. Francesco De Vanna, è focalizzato specificamente sul territorio modenese dove i cittadini di origine straniera sono 92.413 e rappresentano il 13,1% della popolazione residente territoriale.
L’Osservatorio, oltre a realizzare report e ricerche tematiche, ha promosso vari incontri con la partecipazione di lavoratori e lavoratrici migranti impegnati nel lavoro di cura, nella ristorazione, nelle attività di assistenza e collaborazione domestica, nelle imprese di pulizia e igienizzazione, nella filiera agroalimentare, nel settore delle consegne, fino alle attività di mediazione culturale.
Il 26 marzo scorso si è svolto un workshop sulle condizioni delle lavoratrici migranti con tre significative testimonianze Soumaya Bakkali, Shyrelin Diaz, Lucica Dumbrava e il contributo della Dr.ssa Letizia Palumbo, corrispondente dell’Osservatorio, oltre che ricercatrice sui temi delle migrazioni e dello sfruttamento del lavoro migranti presso l’Univ. Cà Foscari di Venezia e componente del Centro “L’Altro Diritto” dell’Università di Firenze.
Nel corso dell’incontro è emersa chiaramente la necessità di contrastare le recrudescenze delle nuove forme di asservimento, generate anche dal senso di solitudine e dall’isolamento vissuto da chi arriva a Modena da altri Paesi, spesso dopo un distacco difficile dalle proprie comunità di origine.
In questa prospettiva diventa cruciale individuare le forme di vulnerabilità, che rischiano di restare fuori dalle statistiche e che attecchiscono anche nei luoghi di lavoro, siano essi le fabbriche, i settori del terziario, i campi agricoli, o anche solo le case nelle quali le lavoratrici migranti collaborano alle attività domestiche e al lavoro di cura.
Nella provincia di Modena, ad esempio, le assistenti familiari sono 6.753 e 5.505 provengono da Paesi dell’Europa Orientale ed hanno un’età media di 50 anni: classificate come “badanti” – un’espressione che è bene sostituire con quella di assistenti domiciliari – per tutte loro è difficile intercettare opportunità di lavoro che valorizzino le competenze professionali pregresse, in taluni casi anche molto elevate, ed è ancora più complicato ottenere il riconoscimento dei titoli maturati nei Paesi di provenienza. Un altro aspetto cui andrebbe riservata particolare attenzione anche da parte delle istituzioni ad ogni livello è quello della mancanza di percorsi di professionalizzazione, anche con riferimento alle attività di cura e di assistenza domestica.
Sulle questioni del lavoro l’Osservatorio Migranti del CRID ha promosso negli anni altre giornate di studio: in particolare il 26 giugno 2019 si è svolta una Tavola rotonda dal titolo “Il lavoro migrante a Modena tra sfruttamento e istanze di tutela”, con la partecipazione di rappresentanti di varie associazioni e sigle sindacali del territorio nonché del Prof. Domenico Perrotta (Univ. di Bergamo), seguito poi il 24 settembre dello stesso anno dal workshop “Lavoro, migranti, inclusione sociale”, con l’intervento, tra gli altri, del Dott. Marco Omizzolo (Eurispes).
Le ricerche condotte a partire da questi incontri e sviluppate nel corso del 2020 anche mediante l’analisi di una significativa mole di documenti, atti e normative di carattere nazionale e internazionale, confluiranno entro l’autunno in un Report conclusivo sulle attività dell’Osservatorio condotte nel biennio 2019-2021 che sarà presentato e discusso nell’ambito della VI edizione del Festival della migrazione, che vede il CRID e il Dipartimento di Giurisprudenza tra i soggetti promotori.