> FocusUnimore > numero 14 – aprile 2021
Le criticità del sistema universitario italiano sono note da tempo e non hanno trovato soluzione neppure dopo la cosiddetta riforma Zecchino del 2000.
Ora, a causa della pandemia, la situazione si è aggravata drammaticamente ed ha fatto emergere i limiti legati agli scarsi investimenti su ricerca, strutture e diritto allo studio. C’è bisogno più che mai di risorse e riforme che non rispondano a situazioni emergenziali, di corto respiro o ad interessi particolari, ma che abbiano come obiettivo quello di affrontare positivamente le nuove sfide dei cambiamenti politici, istituzionali, culturali, economico-sociali e tecnologici e di permettere all’Università di attestarsi come il luogo dove si forma la futura classe dirigente del nostro paese.
Cosa è successo durante la pandemia?
Innanzitutto, la didattica si è trasformata: da un giorno all’altro ci si è ritrovati ad utilizzare nuove tecnologie per continuare a fare lezione, sostenere esami, discutere lauree. L’irruzione nel nostro quotidiano di didattica a distanza, esami on-line e ricevimento su piattaforme digitali impone una profonda riflessione sulle nuove modalità di trasmissione del sapere.
A questa rivoluzione, si affianca quella tecnico-amministrativa, attuata con competenza, sacrificio e creatività allo scopo di garantire servizi di qualità.
Si è trattato di una prova dura in cui non sono mancate le incognite, come la difficoltà di lavorare con infrastrutture e strumentazioni non sempre adeguate. Tuttavia, l’obiettivo era ed è ben definito: continuare la missione istituzionale nei confronti degli studenti, della ricerca, della terza missione e mantenere i rapporti con gli stakeholder, ovvero garantire un servizio valido ed efficace e intanto immaginare un nuovo modello di Università, più vicino a studenti e studentesse.
Scopo primario del sistema università, nella cornice del Recovery Fund, sarà quello di individuare gli adeguati strumenti per ridefinire e affermare il suo ruolo ed affrontare le sfide che lo attendono nei prossimi anni.
È fondamentale che i lavoratori e le lavoratrici dell’Università siano consapevolmente coinvolti nel processo di rinnovamento, perché quello di una P.A. più moderna, qualificata, formata ed anche, non ultimo, remunerata nella giusta misura diventi obiettivo condiviso da tutti.
Il lavoro agile
È in questo quadro che si colloca l’accordo del 10 marzo 2021, sottoscritto dai Sindacati con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministro per la Pubblica Amministrazione, il quale segna un importante cambio di passo, perché indica la Pubblica Amministrazione quale asset strategico per il rilancio e lo sviluppo del nostro Paese.
Sarà in grado il Patto per l’innovazione del Lavoro Pubblico e la Coesione Sociale di rispondere alle esigenze maturate nel corso del tempo, di ridisegnare una macchina amministrativa più moderna, snella, connessa e vicina alle persone, attraverso la semplificazione dei processi e, soprattutto, la valorizzazione del suo capitale umano?
Al centro del piano sta la prima sfida, quella più attuale, ovvero l’implementazione del “Lavoro Agile”, che consiste non solo nel lavorare da remoto utilizzando nuove tecnologie, bensì in una nuova organizzazione del lavoro, basata non più sulla quantificazione oraria e sul controllo della presenza, ma sul raggiungimento di obiettivi chiari e condivisi in un’ottica di responsabilizzazione e di rinnovata fiducia tra datore di lavoro, lavoratrici e lavoratori.
Tale modalità lavorativa non sarà frutto di improvvisazione come avvenuto all’inizio della pandemia, ma sarà programmata e regolamentata in dettaglio attraverso la predisposizione del POLA (Piano Organizzativo del Lavoro Agile) che il nostro Ateneo, così come altri enti pubblici, attiverà attuando un radicale cambiamento nel nostro modo di pensare e di vivere il lavoro.
Con una attenta pianificazione, il lavoro agile potrà diventare uno strumento importante per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (si pensi all’annullamento degli spostamenti casa-lavoro, alla riduzione dello stress psico-fisico, alla possibilità di mantenere vicini i nuclei famigliari), ma anche una risposta al sovraffollamento e alla difficile vivibilità delle città, oltre che un’opportunità per migliorare la viabilità e i trasporti (si pensi alla diminuzione di traffico e inquinamento, alla possibilità di ripopolare le periferie) e infine si propone come una fondamentale opportunità per accrescere l’efficacia e l’efficienza dell’amministrazione pubblica.
Per contro, ci si deve interrogare su come sarà possibile per chi lavora in modalità agile continuare a lavorare in team senza rischiare di essere escluso dal gruppo dei colleghi; su come sarà gestito e garantito il “diritto alla disconnessione”, onde evitare il possibile sconfinamento del tempo di lavoro nel tempo di vita privata; su come e quanto l’attenzione sarà spostata su produttività lavorativa, tempi di risposta, qualità ed effettività del risultato stesso.
Il sindacato assumerà in tutto questo un ruolo fondamentale per garantire pari opportunità di formazione, di trattamento economico e di carriera per tutti i lavoratori e le lavoratrici, agili e non.
Il precariato
Altro nodo, urgente, da sciogliere quello del lavoro precario e del basso reddito con cui esso viene retribuito. Il precariato è una condizione trasversale rispetto a tutte le componenti che lavorano nel mondo accademico e che impatta molto negativamente sulla vita di coloro che non hanno un rapporto stabile con l’Ateneo per cui lavorano. E un lavoratore o una lavoratrice preoccupato/a per la propria situazione economica e il mancato riconoscimento professionale rischia la demotivazione, con possibili riflessi negativi anche sulla qualità della prestazione lavorativa.
Questa criticità è presente da molto tempo nelle università italiane, ma si è acuita a partire dall’entrata in vigore della Legge 240/2010 (Riforma Gelmini). In effetti, sia a livello nazionale che nella realtà di Unimore, è facile constatare che l’attività accademica, anche quella strutturale, non episodica o sperimentale, è fondata sul lavoro precario, fatto di contratti annuali di varia tipologia, prorogati per periodi di tempo complessivamente piuttosto lunghi.
La didattica sempre più viene svolta da docenti a contratto oppure, più o meno formalmente, viene affidata al personale assegnista o ricercatore a tempo determinato. Similmente, anche le attività della ricerca vengono sostenute da una fascia estremamente popolata di ricercatori/ricercatrici precari/e (giovani, ma anche meno giovani) che lavorano con contratti tanto normativamente corretti, quanto precari. Ciò che rende ancora più critica la situazione di tali lavoratori e lavoratrici è l’assenza di una concreta prospettiva che permetta di “riscattare” tanti anni di precariato con l’ingresso nei ruoli stabili delle Università, dato che il numero di posti disponibili in tali ruoli è sempre molto ridotto rispetto a quello dei precari stessi.
Il precariato riguarda anche attività strutturali e strategiche proprie del personale tecnico-amministrativo, dei bibliotecari, dei collaboratori ed esperti linguistici: è in progressivo aumento il ricorso alle agenzie interinali, ad “associazioni” e cooperative fornitrici di servizi, a società in house, a fondazioni interne agli Atenei e in generale a forme contrattuali che prevedono anche una retribuzione più bassa rispetto a quella di colleghe e colleghi a tempo indeterminato.
Il ricorso al precariato è persino favorito dalle politiche nazionali di finanziamento degli Atenei, poiché le spese per queste tipologie contrattuali non vengono conteggiate come spese fisse nella determinazione del Fondo di Finanziamento Ordinario.
Il sindacato lotta da sempre contro queste storture che deprimono la dignità professionale e la qualità della vita di chi opera negli Atenei, proponendo progetti inclusivi e chiedendo investimenti adeguati per attuare programmi di assunzioni stabili e di qualità, con retribuzioni che corrispondano al valore effettivo del lavoro svolto.
Purtroppo però dobbiamo prendere atto che nessun Governo e nessuna maggioranza parlamentare ha dato segno di voler cambiare la rotta fin qui seguita, rotta che sta portando l’intero Paese in posizioni socioeconomiche sempre più arretrate.
La carriera
Lo scarso investimento della politica italiana nei confronti dell’istruzione di qualsiasi grado investe anche chi lavora stabilmente nelle Università italiane; costoro, non solo percepiscono un reddito molto inferiore a quello di colleghe e colleghi delle Università estere, ma di fatto hanno possibilità di carriera quasi nulle.
Questo è particolarmente evidente per il personale tecnico-amministrativo-bibliotecario, che già parte da una condizione salariale estremamente sfavorevole. Per tale categoria non sono previsti scatti di carriera dettati dall’anzianità di servizio, ma il riconoscimento della professionalità acquisita, anche in termini economici, avviene in modo non sistematico, è sottoposto a stringenti procedure concorsuali o valutative e, soprattutto, è vincolato alla disponibilità o meno di risorse economiche significative o di punti organico.
Si fa riferimento alle Progressioni Economiche Orizzontali (PEO) cui si può accedere tramite apposita selezione e che comportano modesti aumenti stipendiali, permettendo ai pochi vincitori un avanzamento di classe economica all’interno della stessa categoria contrattuale.
I fondi destinati a tale istituto sono esigui in quanto rientrano nel trattamento accessorio, in cui sono comprese numerose altre spese, come ad esempio la performance.
Molto più raramente e con ancora maggiori difficoltà, si attua l’istituto delle Progressioni Economiche Verticali (PEV), che permette a chi è in possesso del relativo titolo di studio di transitare da una categoria contrattuale a quella superiore partecipando a un vero e proprio concorso pubblico, regolamentato da rigide normative.
Da ciò consegue che nella realtà di Unimore circa il 90% del personale rimane inquadrato nella stessa posizione per periodi anche superiori a 10 anni, durante i quali non vede né incrementare la propria posizione economica, né il riconoscimento formale delle proprie competenze, nonostante nell’attuale momento storico i processi di valutazione, performance e riconoscimento del merito siano al centro di ogni disposizione di legge.
La situazione descritta causa demotivazione e stress al personale che con enorme impegno si adopera per far funzionare al meglio l’istituzione a fronte dell’aumento significativo del numero di studenti verificatosi nell’ultimo decennio, di procedure sempre più complesse e del progressivo calo delle unità di personale, causato da mancate sostituzioni a seguito di pensionamenti e/o trasferimenti.
Una nuova politica del lavoro che assicuri prospettive di carriera e crescita lavorativa serie e concrete anche al personale tecnico-amministrativo delle Università è da considerarsi tra i pilastri del rinnovamento della P.A. nonché tra i principali obiettivi che le organizzazioni sindacali, soprattutto a livello nazionale, si impegnano a perseguire.
Le RSU e OOSS di Ateneo, In memoria di Antonio Martino
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Il personale docente e tecnico-amministrativo dell’Ateneo: uno sguardo a partire dal genere
Dai dati di genere appare evidente una sovrarappresentazione delle donne tra il personale tecnico amministrativo, dove raggiungono il 71% a fronte di un 29% di rappresentanza maschile, mentre il rapporto di genere si sbilancia nella direzione opposta se si considera la rappresentanza di uomini e donne tra il personale docente e ricercatore (donne al 39% e uomini al 61%).
In entrambi gli ambiti (PTA e personale accademico) appare evidente un fenomeno di segregazione verticale (glass ceiling).
Nell’ambito del personale docente e ricercatore si osserva infatti come man mano che si sale nella gerarchia della carriera accademica la presenza delle donne si riduca. A partire dalla fascia dei ricercatori a tempo indeterminato (RU) dove le donne rappresentano praticamente il 50%, via via tale percentuale si riduce fino ad arrivare ad un 29% nella fascia dei professori ordinari. Osservando l’andamento della presenza di donne nelle fasce intermedie, si nota che, mentra la percentuale di presenza femminile è simile tra i Ricercatori RTD-A e i professori associati (43.9% e 42,7% rispettivamente), essa decresce se si osserva la fascia dei ricercatori RTD-B, dove si attesta al 38,4%. Questo può far pensare ad un peggioramento del fenomeno di sottorappresentazione delle donne nella fascia degli associati per il prossimo futuro e che un riequilibrio nella fascia apicale non sia così vicino.
Per quanto riguarda l’ambito del personale tecnico amministrativo, le donne rappresentano ampiamente la maggioranza nelle categorie EP, D e C. Rappresentano invece la minoranza nei livelli apicali, ossia tra i dirigenti di livello generale. Dato anomalo è la minoranza di donne (38%) nella categoria B, forse dovuto alla tipologia di mansione (es. portierato) solitamente richiesta per tale categoria.