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donna come se fosse un uomo, e facendola così
scomparire dalla comunicazione.
I media stessi contribuiscono in misura consi-
stente al mantenimento e addirittura al rafforza-
mento di un immaginario di genere che trasmette
un modello non più attuale e quindi inadeguato
della donna. Il linguaggio quotidiano si sente così
autorizzato a conservare e ad adottare queste
modalità espressive, contribuendo a depositare
nella mente di chi è esposto a questo tipo di co-
municazioni parole e concetti che possono esse-
re facilmente scambiati come riflessi della realtà.
Tutto ciò non fa che rinforzare la necessità che il
ruolo della donna nella società venga pienamen-
te riconosciuto e testimoniato anche attraverso il
linguaggio con un uso della lingua più adeguato
e consapevole. Ma ancora ci sono resistenze. Ed
è necessario che siano proprio le donne, in pri-
ma persona, a chiedere di essere chiamate con il
titolo femminile: la stessa Laura Boldrini dovette
chiedere di essere chiamata “la” presidente del-
la Camera, e oggi dobbiamo alla stessa Antonella
Polimeni il suo essere definita sui giornali “rettri-
ce” e non “rettore” dell’Università La Sapienza.
La comunicazione istituzionale deve rendere
visibile la donna attraverso il linguaggio: il Codi-
ce di Stile delle comunicazioni scritte a uso delle
Pubbliche Amministrazioni, un manuale promos-
so dal giurista Sabino Cassese nel 1993, già
richiedeva “Quando ci si riferisce ad un incarico
amministrativo, e questo è ricoperto da una don-
na, volgere al femminile ogni riferimento che la ri-
guarda e utilizzare (…) la forma femminile dell’in-
carico ricoperto o della mansione svolta”. La legge
6/2014 della Regione Emilia-Romagna ha ripetuto
la raccomandazione. Lo stesso hanno fatto le li-
nee guida del Miur, e sta ripetendo il Gruppo sul
Linguaggio di genere della CRUI coordinato dalla
stessa professoressa Robustelli. È tempo che le
istituzioni si adeguino….
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